La ricerca della Statale sui rider Secondo le risultanze principali è improprio parlare di 'gig economy'



L’Università degli Studi di Milano (Luciano M. Fasano e Paolo Natale, Dipartimento di Studi Sociali e Politici) ha condotto, in collaborazione con il Comune di Milano - Assessorato alle Attività Produttive, una ricerca sul campo per tracciare un profilo socio-economico dei rider, i fattorini delle consegne a domicilio di cibi pronti.

La ricerca si è basata su interviste faccia a faccia (218) con questionario a domande prevalentemente chiuse effettuate tra novembre 2018 e metà gennaio 2019. Il risultato principale è che non si può più parlare di 'gig economy', sempre che lo sia mai stato.

L’81% degli intervistati che hanno risposto alla domanda lavora come rider per più di 30 ore settimanali, il 29% più di 50 ore. Il 59% sta ancora lavorando con il primo contratto ricevuto, mentre il 13% è già al terzo o più, per la metà di tipo lavoro autonomo occasionale (con nota), il resto diviso su tutte le tipologie possibili (partita IVA, CoCoCo, chiamata, eccetera).

Altre informazioni interessanti che emergono dall’inchiesta: si lavora con mezzi propri (biciclette, per lo più), l’attrezzatura fornita dal committente è scadente (qui si parla delle borse per il trasporto, argomento che interessa la sicurezza alimentare e la qualità del cibo consegnato), non sono previste attività formative.

Su questo ultimo punto, un po’ ingenuamente, la ricerca si concentra sul Codice della Strada, inteso come segnali e comportamenti di guida. Come OITA facciamo sommessamente notare che sarebbe altrettanto importante una formazione su come si trasportano i cibi, su come fare manutenzione e pulizia dei contenitori, eccetera.

Dal punto di vita socio-economico, infine, la ricerca rileva che il 61% degli intervistati non è cittadino italiano, ma per i tre quarti risiede nel nostro Paese da più di due anni. Per un 30% degli intervistati la ricerca ha riscontrata poca o nulla conoscenza dell’italiano, percentuale che forse causalmente coincide con quella degli immigrati di provenienza africana. Un ulteriore ostacolo alla formazione e all’apprendimento delle regole per il trasporto del cibo, oltre che, come giustamente fanno notare i ricercatori, fonte di un’asimmetria informativa molto forte nei confronti dei committenti/datori di lavoro.

Infine, una nota metodologica: non sembra sia stata posta la domanda su da quanto tempo il singolo rider lavora. Sarebbe stato interessante capire se le piattaforme di food delivery abbiano o meno cambiato nel tempo la composizione delle loro squadre dopo il caso di Torino. Il sospetto derivato dall’osservazione empirica è che lo abbiano fatto.

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